Retorio
Ermete Trismegisto sui nomi e la forza dei dodici luoghi traduzione di Giuseppe Bezza da CCAG VIII/4, Rhetorii Aegypti capitula selecta, pp. 126-174. |
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Entrambi i testi di Retorio e di Paolo di Alessandria si richiamano ad una fonte comune: Ermete Trismegisto. L’apposizione del nome di Ermete in un’opera vuole generalmente dare a quell’opera un carattere sacro e sacerdotale: «I nostri antenati - scrive Giamblico all’inizio dei Misteri egizi (I, 1) - dedicavano ad Ermete le invenzioni della loro sapienza, ponendo sotto il suo nome tutti i loro scritti». In un altro passo dei Misteri (VIII, 4), ci viene offerto un elenco sommario degli scritti che circolavano sotto il nome di Ermete. Giamblico scrive queste parole forse nella sua maturità, nei primissimi decenni del secolo IV. Non molto più tardi, Teone di Alessandria, il cui floruit è posto nel 364,[1] commenterà i libri ermetici, secondo quanto leggiamo nella Cronografia di Giovanni Malala.[2] Conosciamo Teone come il più grande commentatore dell’opera astronomica di Tolemeo e questa testimonianza ci mostra quanto compenetrati fossero, in quel tempo, e in particolare nella scuola di Alessandria, gli studi di astronomia e di astrologia. Il riferimento più antico alla dottrina ermetica sui dodici luoghi è nel sommario, redatto in età bizantina, dell’opera astrologica del neoplatonico Trasillo, noto come astrologo di Tiberio,[3] e ancora nel sommario dell’opera astrologica di Antioco ateniese.[4] Si tratta di esposizioni brevissime, limitate a un elenco di denominazioni. Molto più numerosi e sparsi in vari luoghi sono i riferimenti occasionali.[5] Tra la letteratura greca relativa ai giudizi sui dodici luoghi, sulle virtù od operazioni degli astri presenti in essi, il testo di Retorio si distingue per una struttura ben articolata che, per ciascun luogo, possiamo distinguere in sei sezioni:
Infine, il testo di Retorio coincide nella sostanza con altri due importanti testi: con quello di Firmico (III, 2-7; 13), segnatamente nella sua ultima sezione; il testo di Firmico appare più integro e, nello stesso tempo, prolisso e appesantito dalla sua caratteristica forma retorica; e con V. Valente (II, 4-15), nella sua terza sezione ove si tratta della sorte di fortuna. Anche da questo confronto il testo di Retorio appare mutilo e lacunoso. Possiamo pertanto concludere che, della sua grandiosità originaria, ci è pervenuta integra solo la struttura. |
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[1] A. Tihon, Le “Petit Commentaire” de Théon d’Alexandrie aix Tables faciles de Ptolémée, Città del Vaticano 1978, p. 1. [2] G. Malala (ca. 491-578) ed. L. Dindorf, Bonn 1831, p. 343. [3] CCAG VIII/3, pp. 101,16ss. Su Trasillo cfr. A.H. Krappe, Tiberius and Thrasyllus, American Journal of Philology, n. 48, 1927, pp. 359-366; F. Susemihl, Über Thrasyllos: Zu Laert. Diog. III 56-68, Philologus, n. 54, 1985, pp. 567-574; H. Tarrant, Thrasyllan Platonism, Ithaca and London 1993. [4] CCAG VIII/3 pp. 116,32ss. Su Antioco cfr. F. Cumont, Antiochus d’Athènes et Porphyre, Mélanges Bidez. Annuaire de l’Institut de philologie et d’histoire orientale n. 2, 1933, pp. 135-156. Sulla dipendenza degli scritti di Retorio dall’opera di Antioco cfr. D. Pingree, Antiochus and Rhetorius, Classical Philology 1977. L’articolo del prof. Pingree costituiva, nei voti, un lavoro preparatorio all’edizione degli scritti di Retorio, che ancora non ha visto la luce. [5] Ad esempio Vettio Valente IV, 12 (Pingree 170): «Sulle denominazioni dei dodici luoghi e sul circolo dodecatropo: Inizio è l’oroscopo, che è vita, timone, corpo, soffio; il secondo è bios, porta dell’Ade, ombroso, il dare e l’avere, la comunanza...». |
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