Giuseppe Bezza

Liber scriptus et liber vivus.

Antecedenti astrologici alla metafora galileiana del Libro dell'universo

esos orbes de diamantes,
esos globos cristalinos,
que las estrellas adornan
y que campean los signos,
son el estudio mayor
de mis años, son los libros
donde en papel de diamante,
en cuadernos de zafiros,
escribe con líneas de oro,
en caracteres distintos,
el cielo nuestros sucesos,
ya adversos o ya benignos.

P. Calderón de la Barca, La vida es sueño, vv. 628-640

Scriveva Galileo nel Saggiatore: «La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intendere la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto»[1].

La metafora del libro della natura, della cui ricchezza, a partire dal medioevo, si è abbondantemente discusso[2], era già stata proposta, nei termini di una sua lettura matematica, più volte. E uno dei più chiari esempi lo troviamo in Niccolò di Cusa: «Nella creazione del mondo, Dio si è servito dell’aritmetica, della geometria, della musica e dell’astronomia, e noi ci serviamo di queste medesime discipline quando indaghiamo le proporzioni delle cose, degli elementi e dei moti»[3]. Ma il “libro aperto del cielo“ di cui parla Galileo, pur non contrapponendosi al libro delle Sacre Scritture, che proviene direttamente dal verbo divino, possiede caratteri propri, la cui interpretazione non è compito dei teologi, ma di chi indaga attentamente la natura, senza sentire la necessità di appoggiarsi all’opinione di qualche celebre autore. In questi termini la metafora galileiana era stata proposta, qualche anno prima, da Federico Cesi in un discorso all’Accademia dei Lincei: «È necessario ben leggere questo grande, veridico et universal libro del mondo»; chi si appoggia sull’autorità di questo o quello degli antichi si riduce ad esser filodosso e non filosofo, e questa è un’attitudine che «impedisce la necessaria lettione del libro dell’universo»[4].

Nella visione agostiniana, ove la vera natura dei fenomeni fisici risiede nel loro significato spirituale, i due libri, quello divino e quello della natura, non giacciono sul medesimo piano: il primo è liber scriptus, il secondo è liber vivus e la comprensione del mondo passa attraverso la lettura del primo, che parla e alla ragione e alla fede: «Sia il tuo libro la pagina divina che devi ascoltare, sia il tuo libro l’universo che devi osservare. Nelle pagine della Scrittura possono leggere soltanto quelli che sanno leggere e scrivere, mentre tutti, anche gli analfabeti, possono leggere il libro dell’universo»[5]. Ma nella nuova scienza del Seicento, che afferma l’universalità e l’autonomia del discorso scientifico, il rapporto tra i due libri è rovesciato: nel libro della natura possono leggere solo i dotti. Nel suo discorso In lode delle matematiche, Evangelista Torricelli osserva: «Mi sovviene d’aver sentito dire da un grand’ingegno, che l’onnipotenza di Dio compose una volta due volumi. In uno Dixit et facta sunt, e questo fu l’universo, nell’altro Dixit et scripta sunt, e questo fu la Scrittura. Che per leggere la Bibbia sieno giovevoli le matematiche, già sentiste l’opinione di sant’Agostino e d’altri Padri. Che per leggere il gran volume dell’universo (cioè quel libro, nei fogli del quale dovrebbe studiarsi la vera filosofia scritta da Dio) sieno necessarie le matematiche, quegli se n’accorgerà, il quale con pensieri magnanimi aspirerà alla scienza delle parti integranti, e dei membri massimi di questo gran corpo che si chiama mondo». E questa scienza matematica ha come oggetto i corpi celesti, che sono «l’unico alfabeto, i soli caratteri con i quali si legge il gran manoscritto della filosofia divina nel libro dell’universo»; essa indaga i tempi precisi dei movimenti periodici dei pianeti, le varietà delle stagioni, l’ineguaglianza dei giorni, i termini degli eclissi, la trepidazione del firmamento, e cose simili[6].

Se l’idea del linguaggio del mondo, di un libro della natura, si ritrova in tutti i sistemi di pensiero dal medioevo al rinascimento, e rivela un modo di ragionamento arcaico, all’inizio del Seicento, con Galileo, con Keplero, si trasforma e diviene matematico. Nondimeno, una dicotomia fra una visione matematica, oggettivante, della natura, ed un’altra teologica, non può essere mantenuta in Keplero, per il quale, come per Tycho Brahe, l’universo stesso è il più perfetto libro di teologia. L’astronomia sarà quindi la scienza del sacro, in quanto la sola che può svelare le leggi dell’armonia e dell’universo. Al suo fianco, l’astrologia, disciplina ancillare, ne costituisce un’applicazione utilitaria e profana[7]. Giacché il fine ultimo dell’astronomia porta sulla comprensione del mondo, sulla sua natura fisica e sulle sue cause metafisiche, le quali da nessuno possono essere meglio indagate se non dall’astronomo. In questo consiste il liber naturæ: «Hic est ipsissimus liber naturæ, in quo Deus conditor suam essentiam suamque voluntatem erga hominem ex parte, et alogô quodam scriptionis genere propalavit atque depinxit»[8]. La comprensione del creato è un’astrosofia e chi interpreta le leggi dell’universo è un ministro di Dio: in rapporto al libro della natura, dice Keplero, gli astronomi sono sacerdoti di Dio altissimo e la loro gloria è la gloria di Dio[9].

Nel medioevo, di un ruolo parimenti divino era accreditata l’astrologia, nell’accezione più ampia di scienza dei moti e di scienza dei giudizi. Nella conoscenza degli eventi futuri, dice Cecco d’Ascoli nel proemio del suo commento alla Sphaera del Sacrobosco, consiste la divinità della natura umana[10], e Salio, nella sua Epistula nuncupatoria, indirizzata a Domenico Maria Novara, al commento al quadripartitum tolemaico di ‘Alî ibn Ridwân, non paragona l’astronomo-astrologo al sacerdote di Dio, ma a un dio terrestre, a noi inviato da cielo in terra, giacché non vi è altra scienza che renda l’uomo simile a Dio quanto la predizione degli accadimenti universali e singoli[11].

La divinazione siderale nasce come un dono degli dei agli uomini: Ea, dio della saggezza, è indicato come l’autore della grande raccolta di omina cælestia dell’Enûma Anu Enlil[12]. Inoltre, il documento più antico che possediamo sulla forma più primitiva dell’astrologia mesopotamica, rinvia la conoscenza del cielo stellato all’arte dello scriba. Quando Gudea, principe sumerico che governava la città di Lagash intorno al 2200 a. C., riceve in sogno le prescrizioni sul come costruire il tempio del dio poliade Ningirsu, un’altra divinità si staglia, come un sole, all’orizzonte. È la dea Nisaba, che tiene in mano uno stilo d’argento e, sulle ginocchia, una tavoletta con le stelle del cielo[13]. Questa dea, che ha, tra i suoi epiteti, “padrona delle scienze“[14], può essere ben definita dea astrologorum et numerorum[15]. Essa è detta donatrice di sapienza ai sovrani della terza dinastia di Ur[16], e la canna mensoria e lo stilo che tiene tra le mani sono suoi strumenti in quanto patrona dell’Edubba, lo scriptorium dove venivano educati gli scribi. Fu Enlil, capo indiscusso del pantheon sumerico, a porre sulle ginocchia della dea la tavoletta delle stelle del cielo[17]. Qual era l’uso di questa tavoletta? Qualcuno è giunto a congetturare un suo impiego nella divinazione, poiché nel cilindro di Gudea è detto che questa tavoletta fornisce consigli[18]. Possiamo tuttavia rimanere in un contesto allegorico: ciò che qui importa è notare che le stelle erano chiamate la scrittura dei cieli, quasi lettere con le quali decifrare il messaggio divino[19]. Quando descrivono il fondamento della divinazione celeste, gli scribi ricorrono alla metafora della scrittura, del tratto, del disegno, della misura[20]. E questo è detto nell’incipit stesso della versione accadica dell’En‹uma Anu Enlil: «Quando Anu, Enlil ed Ea, nel loro sicuro consiglio, ebbero fissato i disegni del cielo e della terra...». E poiché i fenomeni celesti possono essere letti nel cielo in virtù di un codice loro proprio, a ciascun fenomeno corrispondendo un evento terreno, ne consegue che non è possibile decodificare i fenomeni celesti in assenza di una scrittura[21]. È pertanto plausibile presumere che il concetto stesso di ideogramma, del segno che ha in sé il significato di qualcosa, deve aver preceduto la divinazione celeste mesopotamica. Le espressioni accadiche shitir burûmê o shitir shamê possono essere rese come “la scrittura che è sul fondo del cielo“, “una scrittura variopinta“[22]. Vi è un adannu (tempo, durata, periodo), del shitir burûmê [23], ovvero vi sono tempi stabiliti del sorgere e del tramontare dei corpi celesti nel corso dell’anno, sì come conviene a un linguaggio, che non può essere in tutto uniforme e che deve avere pause, cesure e flessioni.

È un fatto comunemente ammesso e quasi un luogo comune che l’astrologia di lingua greca, pur originando dalla tradizione mesopotamica, si sia sviluppata sulla base della fisica aristotelica e si sia nutrita del rapporto di causa ed effetto. Essa avrebbe quindi avuto, sin dagli inizi, un carattere deterministico. Per contro, nella visione babilonese, il rapporto tra cielo e terra è omologo e su questa omologia si fonda la concezione del cielo come scrittura divina, ove l’esperto legge il monito della divinità. Ma anche nell’età tardo-antica questa concezione sopravvive: nel III secolo d. C., Plotino ed Origene espongono, in modo distinto, l’idea di una scrittura celeste in movimento. Per Plotino, gli astri sono come lettere che scrivono nel cielo ad ogni istante (Enn. II, 3, 7) e coloro che conoscono tale grammatica, osservando gli astri come lettere, riconoscono dalle figure ciò che avverrà, interpretando il significato secondo analogia (III, 1, 6)[24]. Nei due passi citati, Plotino si serve del termine gramma, che designa la lettera in quanto tale, e non del termine stoicheion. Quest’ultimo, dai primi pitagorici in poi, ha acquisito una ricchissima polisemia, che ha origine nella teoria musicale dei toni e degli intervalli (unitamente a sullabê), fino a significare la natura elementata, vuoi operante, di una stella o di un pianeta, ad es. in Manetone (IV, 624: stoicheion Dios) o nei papiri, o dei segni dello zodiaco distinti secondo i quattro elementi che compongono la materia sublunare[25]. Per contro, in gravmma, oltre all’accezione delle lettere dell’alfabeto, vi è quello della linea tracciata, della figura, e ta; gravmmata significa un insieme ordinato di caratteri scritti che hanno un senso.

Quanto ad Origene, che ritiene gli astri dei sensibili, aijsqhtoi; qeoiv, il libro divino e il libro della natura sono uno solo, è l’axia biblos tou theou. Del Sole, della Luna, delle stelle Dio ha fatto una scrittura in movimento[26]. Nasce così una teoria che assimila la disposizione mutevole degli astri a segni di una scrittura del Dio onnisciente. Se alcuni Padri della Chiesa, come Giovanni Crisostomo, Gregorio di Nissa, Procopio di Gaza, ripudiarono e biasimarono le pratiche divinatorie degli auguri, riconobbero tuttavia che i corpi celesti fossero segni della scrittura divina, a guisa di uccelli ignari, ut aves nescientes. Nella contrapposizione fra astri-segni e astri-cause, la questione in gioco va al di là della negazione del rapporto di causa ed effetto: gli astri sono accettati in quanto sêmantikoi; perché danno sêmeia che provengono dalla volontà di Dio, e sono rifiutati in quanto poiêtikoi, perché si nega ad essi una virtù formativa della materia. Non siamo quindi di fronte ad una legittimazione dell’astrologia, giacché un siffatto alfabeto, essendo tracciato dalla mano divina, poteva essere letto solo divinamente, nella piena accettazione della rivelazione di Dio e del mistero della sua creazione.

Non legittimare l’astrologia è altra cosa dal negare l’influsso dei cieli, che era di norma accettato nell’ambito della scienza e della fede. In entrambi gli ambiti, la penetrazione del pensiero neoplatonico, nella tarda antichità e nel mondo islamico, ha operato mediazioni importanti e favorito posizioni eclettiche. Se Filone d’Alessandria dichiara che non vi sono cose quaggiù i cui segni non siano impressi nel cielo[27], al-Bîrûnî conclude la sua esposizione sulle divisioni dell’astrologia giudiziaria (ahkâm al-nujûm) affermando che non vi è presagio che non possa essere posto in rapporto con le stelle[28]. Un identico sentire troviamo in Hamîd al-Dîn al-Kirmânî, filosofo ismailita vissuto sotto il regno del califfo fatimida al-Hâkim (996-1021), ma il suo pensiero si muove all’interno dell’interpretazione esoterica (bâtiniyya) della rivelazione coranica: ogni evento terreno, egli dice, ha la sua corrispondenza nel mondo superiore, il mondo delle lettere. Ed ogni lettera ha una sua corrispondenza nell’universo, una natura che gli è propria e, di conseguenza, una virtù efficiente sulle anime[29]. Alla base di questa concezione vi è l’idea che il linguaggio designa le cose per natura. A differenza della tradizione ebraica, non è Adamo che chiama le creature (Gen. II, 19), ma è Dio che insegna i nomi a Adamo e lo esorta poi a pronunciarli[30]. Quello che è proprio dell’uomo, il suo compito nel mondo, è quindi una imitatio naturæ. Che cos’è il mondo delle lettere? Nell’Islam, notava Massignon, le lettere dell’alfabeto furono concepite fin dall’inizio come una materializzazione della parola divina[31].

Non intendiamo seguire qui le speculazioni misticheggianti e magiche dell’onomatomanzia. Ma di alcune sue premesse, in connessione con i cieli, è utile dire qualcosa. Il est néanmoins important de remarquer que la langue hébraïque, puisqu’elle est née avec le premier homme dans le paradis terrestre, fut considérée, pendant plusieurs siècles, la langue sainte par excellence, «ritruovata, nous dit Vico, da Adamo, a cui Dio concedette la Divina Onomathesia, ovvero imposizione di nomi alle cose secondo la natura di ciascheduna»[32]. Cette Divina Onomathesia doit avoir par nécessité une forme analogue à la forme des cieux et de ses mouvements. Ibn al-Nadîm[33] riferisce alcune delle corrispondenze che Sahl ibn Hârûn (m. 859-860), direttore della Casa della Saggezza (Bayt al-Hikmah) pose fra il mondo della natura e il mondo delle lettere: così come il nome ha, in arabo, tre flessioni, tre sono i moti delle nature: uno che parte dal centro, come è per il fuoco; un altro che va verso il centro, come è per la terra; un terzo che si muove intorno al centro, ed è il moto dei cieli. Questi tre moti sono i moti delle nature terrestri, e sono, all’origine, moti che preesistono nei cieli. Sono infatti i tre moti naturali che Aristotele definisce all’inizio del de cælo (I, 2) et che Abû Ma‘ shar riprenderà, nel primo fasl del de magnis coniunctionibus, nel contesto della sua distinzione delle nature prime dei pianeti[34]. Se il moto intorno al centro è proprio della sfera del Sole, le sfere dei pianeti superiori si muovono allontanandosi dal centro, quelle dei pianeti inferiori, avvicinandosi ad esso. Il Sole distingue dunque i pianeti superiori ed inferiori in due classi, e ciascuna di esse può essere compresa in quanto natura che si differenzia in una forma triplice, in accordo alle due triadi dei pianeti superiori ed inferiori: inizio od origine, perfezione o compimento, declino o separazione. Abû Ma‘ shar ci propone in questo modo una teoria della natura differenziata dell’influsso degli astri, che è analoga alla flessione del nome: l’influsso primo degli astri è nella natura del Sole, che è medio in rapporto ad essi. Appare dunque come il nome nella sua uscita al nominativo, la ptôsis orthê, secondo la definizione degli Stoici, che Ammonio interpreta come la caduta verticale del pensiero nell’anima[35]. In seguito, dalla forma retta del nome, si giunge, per una sorta di allontanamento successivo, alle forme oblique, le ptôseis plaghiai. Eccoci dunque di fronte a una teoria dell’influsso che, non differenziato nella sua origine, si distingue in diverse forme, in un modo che è comparabile alla struttura medesima del linguaggio. In questo modo, non vi nessuna differenza semantica tra la lettura dei moti dei cieli e dei moti delle nature terrene.  In altre parole: l’influsso degli astri, per essere compreso dalla ragione, è concepito come una facoltà discorsiva[36]. L’ordine alfabetico detto abjad, frequentemente impiegato nella letteratura astronomica ed astrologica, raggruppa le ventotto lettere dell’alfabeto nei quattro elementi costitutivi della materia, secondo la successione fuoco, terra, aria, acqua, che è la successione medesima dei segni dello zodiaco. In questo modo, le prime quattro lettere del termine mnemotecnico abjad (alif, ba’, jîm, dal) sono all’origine di una serie di sette lettere appartenenti ad un diverso elemento. E poiché, secondo quanto afferma Jâbir ibn Hayyân[37], grammatica e fisica procedono secondo metodi omologhi, così come le parole del linguaggio si compongono di lettere, allo stesso modo le cose da esse denominate si compongono di nature. Non siamo di fronte ad una semplice analogia, ma ad una corrispondenza effettiva di lettere e di nature: mediante l’analisi delle parole si giunge a stabilire la struttura quantitativa e qualitativa delle cose che esse designano, dopo aver ridotto le parole, come Socrate nel Cratilo, ai loro elementi primitivi.

Nei pensatori dell’Islam, le speculazioni sul significato e la finalità del cielo e degli astri occupano un posto di rilievo e pervadono il discorso cosmologico e teologico ancor più di quello squisitamente filosofico. Nallino[38] osservava che nel mondo islamico l’astrologia fu accolta con maggior favore che in seno al Cristianesimo, e questo a causa del fatto che la dottrina della predestinazione nell’Islam ortodosso era, in fondo, non molto lontana dall’heimarmenê degli Stoici e di molti astrologi dell’antichità. E possiamo anche dire che vi furono non pochi teologi che l’accettarono, specie tra i mu‘taziliti. Troviamo inoltre, tra i Sûfî e gli ismailiti, nozioni neoplatoniche, ripensate e rivissute attraverso dati coranici e un’esperienza mistica interiore. Ne abbiamo un esempio nella simbologia avicenniana degli stadi della generazione del cosmo mediante le lettere dell’alfabeto: le prime quattro lettere dell’abjad, ovvero i primi quattro numeri, sono posti a corrispondennza con la serie: Dio, intelletto (‘aql), anima (nafs), natura (tabî‘ah)[39].

Vi sono poi altre tetradi che designano le realtà metafisiche prime o verità primordiali, al-awwalîyât, le quali richiamano direttamente l’immagine del libro scritto. In Semnânî (1261-1336), per esempio, esse sono la penna, il calamaio, l’inchiostro e la tavola[40]. L’interpretazione di questi simboli coranici non è univoca[41]: se in Semnânî l’intelletto è la tavola che accoglie gli influssi luminosi del cielo, in generale la tavola è posta in relazione all’anima dell’universo e la penna all’intelletto. Questa tavola e questa penna si trovano da qualche parte sotto il trono di All‹ah: alla sua creazione, la penna ha ricevuto l’ordine di scrivere ogni cosa esiste nella conoscenza divina fino al giorno della resurrezione. Tavola e penna, lawh et qalam, concetti ben definiti nella teologia coranica, ricevono quindi una nuova identità cosmologica, che non ha mancato di preparare il terreno ad uno sviluppo vigoroso dell’astrologia nel mondo islamico[42]. Si tratta nondimeno di una simbologia che si richiama al linguaggio sacro della rivelazione: lo studio della natura usa di questi simboli coranici e propone un libro dell’universo quale controparte della “madre del libro“, l’umm al-kitâb, il prototipo del Corano. Lo studio del libro dell’universo può quindi essere considerato alla stregua di tante opere esegetiche del libro divino.

L’accezione originaria di lawh è asse, e il suo significato di tavoletta scrittoria, che è posteriore, proviene dall’ambito culturale e religioso giudeo-cristiano (cfr. ebr. lwah)[43]. Questo sembra d’altronde confermato dalla letteratura pseudepigrafica dell’Antico Testamento, dove le tavole celesti sono più volte menzionate, in particolare quale ricettacolo di tutti gli eventi del mondo (Jub. V, 13-14) o come il mezzo per avere conoscenza del futuro (Henoch XCIII, 2). Nel Corano, questa tavola è detta mahfûz, preservata, poiché non può essere in alcun modo alterata. Quanto alla penna, qalam, essa scrive perpetuamente sulla tavola con caratteri luminosi. Al-Tabarî riferisce, nel suo Commento al Corano[44], che il qalam è la prima cosa che Dio ha creato e che è fatto di luce e che la sua lunghezza è pari alla distanza che separa il cielo dalla terra: per questo stesso fatto, fra cielo e terra non vi è separazione[45].

‘Abd al-Razzâq al-Qashânî (m. 1329), nel suo trattato sulla predestinazione e il libero arbitrio, Risâla fî ‘l-qadâ’ wa-l-qadar, identifica la tavola preservata con l’anima universale. In essa, che è come il cuore dell’universo, sono dipinti i tipi universali del mondo dei decreti divini, al modo medesimo delle figure che si tracciano su di una tavoletta, e questi tipi sono incisi, in relazione alle loro cause, sotto forma di concetti generali. In seguito, questi concetti si incidono nelle anime celesti parziali, che sono le anime differenziate delle sfere planetarie, in forme e misure determinate nella materia, sicché giungono a manifestazione nel mondo dei sensi (‘alam al-shahâdah)[46].

Non è nostro intento approfondire qui i concetti che gli autori presentano: il limite di queste note è di presentare in successione quei richiami al libro scritto, ove l’influsso dei cieli, differenziato e specifico, è riconosciuto come azione o come forma operante nella materia sublunare. Questo è d’altro canto il presupposto a partire dal quale i dotti del Medioevo hanno accolto l’astrologia tra le arti liberali. In questo contesto, il pensiero neoplatonico non ha penetrato la teologia coranica meno di quella cristiana, ove si giunse fino ad accostare l’anima del mondo allo Spirito Santo[47]. L’esempio più rilevante è rappresentato dal De mundi universitate di Bernardo Silvestre. Ma nel pensiero di Bernardo sono riconoscibili elementi neoplatonici che servono da supporto ad una teologia creazionistica originale, ove attributi astrologici svolgono un ruolo importante. Bernardo ci presenta il cielo come una scrittura degli astri ove è contemplato tutto quanto deriva dal fato: Scribit enim cælum stellisque totumque figurat / quod de fatali lege venire potest (I, 3). È una scrittura che non si compone di lettere, ma di caratteri peculiari[48] e la successione ordinata degli eventi, fatalis series, è scritta dal dito di Dio (I, 2). La cosmografia di Bernardo è ricca di metafore del libro: Endelichia, l’anima del mondo, dà a ciascuna delle sorelle, che hanno il compito di costruire e preservare il microcosmo che è l’uomo, un dono. Ad Urania providentiæ speculum: in esso tutte le idee, tutti i modelli delle cose esistenti sono presenti, ed è illimitato, limpido e luminoso. A Natura la tabula fati, che è limitata, non limpida e non luminosa: in essa è contenuta ogni cosa nella sua forma e sostanza, ogni evento che accade nel tempo e che è soggetto al mutamento. A Physis il liber recordationis, ove tutte le realtà contenute nello specchio e nella tavola sono registrate, quantunque non in modo altrettanto chiaro e con caratteri non comuni ed in forma concisa, sicché la loro comprensione è possibile solo per congettura[49]. Infine, in Bernardo, Endelichia, l’anima del mondo, è informata da Nous, l’intelletto universale, con i modelli delle idee eterne. In questa istruzione, Nous l’esorta a contemplare il cielo, «iscritto di una multiforme varietà di immagini, che io ho dispiegato, a guisa di un libro dalle pagine aperte, contenente in sé il futuro scritto in lettere criptiche, davanti agli occhi dei più dotti» (II, 1, 3)[50].

Lemay ha sufficientemente dimostrato l’influsso dell’Introductorium in astronomiam  di Abû Ma‘shar nella filosofia occidentale della prima metà del XII secolo, nella scuola di Chartres e in Bernardo Silvestre in particolare, tramite la mediazione del De essentiis di Ermanno di Carinzia[51]. Alcune delle sue interpretazioni sono ancora ipotesi che devono essere verificate, in assenza di uno studio sulla ricezione dell’astrologia Albumasaris nel medioevo latino. E in verità, della sterminata produzione astrologica di Abû Ma’ shar, molte opere sono oggi perdute, anche nell’originale arabo. E nei secoli che seguirono le prime traduzioni dall’arabo in latino non sappiamo dire quante glosse e interpolazioni si siano succedute nella trasmissione dei trattati dell’astrologo di Balkh. Certo è che ce ne furono: sul finire del Quattrocento, Giovanni di Glogau ci riporta una sentenza di Abû Ma’ shar che non può essere sua e ci appare come un commento ai Salmi: «Posuit enim Deus, inquit Albumazar, celum sicut pellem et librum apertum in quo qui doctus est legat, qui vero non prudenter taceat»[52]. Giovanni di Glogau è astronomo e filosofo e la sua citazione di Abû Ma’ shar è posta in un contesto ove, discutendo egli se il diluvio fu inviato da Dio a causa dei peccati degli uomini, al di là di ogni causa naturale, antecedentem et presignantem in celo, giunge alla conclusione della necessità dei segni celesti e, come già Filone d’Alessandria e al-Bîrûnî, afferma che nulla avviene in questo mondo che non abbia una qualche testimonianza nel cielo, poiché il cielo è come un libro scritto dalla mano divina, in cui Dio pose le stelle al modo di lettere leggibili[53].  Il nostro autore riamnda poi a Pierre d’Ailly[54], che a sua volta rinvia ad Alberto Magno[55]. Qui, il commento a Ps. 103, 2 si trova nel contesto della nascita del Cristo, ove l’autore dello Speculum cita la descrizione di Abû Ma’ shar della prima facies del segno della Vergine. Dio, leggiamo, tendendo il cielo come una pelle, formò il libro dell’universo e non volendo lasciare incompleta la sua opera non volle che fosse priva di quelle lettere che sono scritte in quel libro in accordo alla sua provvidenza[56]. Per questo il Cristo nacque in quella regione del cielo, non già che in ciò sia la causa della sua nascita, ma il segno di essa[57]. E se tu, conclude Alberto Magno, diligentemente sfogliassi quel libro, vi troveresti molte altre cose notevoli. È pertanto evidente che il commentatore di Ps. 103, 2 non è Abû Ma’ shar, ma Alberto Magno. Ancora, nel capitolo 14 dello Speculum astronomiæ riappare l’espressione liber universitatis. Di fronte alle difficoltà che le interrogazioni pongono riguardo al libero arbitrio e alla provvidenza divina, egli dice: «Per quanto è degli eventi di cui noi siamo il principio, nulla vieta che non già la causa, ma il significato sia nel cielo. Fra le due parti di un’alternativa, l’uomo può scegliere l’una o l’altra, ma Dio sapeva dall’eternità quale avrebbe scelto. Pertanto nel libro dell’universo, che è la volta celeste, Egli potè significare, solo che lo volesse, ciò che conosceva»[58].

La sentenza di Abû Ma’ shar non sembra trovarsi in nessuno dei suoi scritti che raggiunsero il medioevo latino. Ma Giovanni di Glogau può averla letta altrove: il Palatinus lat. 1445, redatto nel XV secolo, così si apre, al primo foglio: «Albumasar: Cœlum est liber magnus continens omnia in quo qui legere scit caute legat, qui vero non intelligit prudenter sileat». Nei trattati astrologici posteriori al XV secolo raro è il richiamo al libro dell’universo. In Jean Ganivet[59] o in Johann Gartze[60] non è più che una semplice metafora letteraria; in altri, come Francesco Giuntini[61], la sentenza di Albumasar rivive in parte, quasi come un’insistenza tardiva sul valore dell’astrologia come una teologia della natura. Ma nella seconda metà del XVI secolo un richiamo al libro dell’universo è proposto da un astrologo nel contesto di un ritorno ad un metodo razionale della predizione che solo si ritrova in Tolemeo: Gerolamo Cardano critica gli Arabi, Firmico, Pontano e gli astrologi suoi contemporanei che, di fronte agli elementi da cui si trae il giudizio, non sanno connetterli tra loro, ignorando radicem commixtionis, omnium tempus, modum, ordinem, locum. E se qualcuno esclamasse: «”Ma questa strada è gravosa assai!“ Ma di che ti meravigli, mio buon amico? Questo è il libro di Dio ottimo e massimo, questo è il cielo. Ed è come un libro scritto a caratteri minuti. Alcuni vi leggono qualcosa, come Tolemeo, come noi, che per l’appunto abbiamo interpretato Tolemeo in modo compiuto, senza tralasciare una sola sillaba. Altri vi sanno leggere un po’ meno, altri ancora poco assai e molti proprio nulla, vuoi perché sono sviati dalle brame dell’appetito, vuoi perché non sono versati nella filosofia, o ancora perché son privi di un profondo discernimento o non conoscono i principi dell’astrologia teorica, i moti, le magnitudini, le posizioni, etc. o non si applicano a questo libro quanto bisogna»[62].

Per Cardano non si trattava, come per Galileo, di svelare l’ordine matematico dell’universo, un ordine fondato sulla definizione di leggi di natura. Il libro dell’universo rimane il libro di Dio: i suoi caratteri, le sue figure, i suoi simboli, non traducono direttamente la realtà fisica del mondo naturale, ma svelano, a chi ne comprende la criptografia, il rapporto tra i cieli e il creato. E sebbene questi caratteri siano matematici, è un liber Dei, non un liber naturae. In esso sono contenuti i decreti divini che sono scritti nei cieli e che dal moto dei cieli dipendono. E poiché Dio è immutabile nei suoi decreti, ne consegue che la quantità dei moti non può essere soggetta ad alcuna variazione. In ciò consiste la perfezione del cielo e il suo essere forma. Per l’antica scientia stellarum, il discorso sulla natura è un discorso traslato, che va dal cielo alla terra, nella convinzione che della meccanica biologica, in quanto imperfetta e mutevole, non può darsi scienza, al contrario della meccanica celeste.


 

[1] Opere di Galileo Galilei, ed. nazionale a cura di A. Favaro, Firenze 1968, V, p. 232.

[2] Cfr. E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo Latino (trad di A. Luzzatto e M. Candela di Europäische Literatur und lateinisches Mittelalters, Bern 1948), Firenze 1992, pagg. 354ss. Una più attenta rilettura della simbologia del libro (e in particolare dei passi di Campanella, assenti nel Curtius) è stata tracciata da E. Garin, La nuova scienza e il simbolo del libro, in: Idem, La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Firenze 1961, pagg. 451-465.

[3] De docta ignorantia, II, 13: «Est autem Deus arithmetica, geometria, atque musica simul et astronomia usus in mundi creatione, quibus artibus etiam nos utimur dum proportiones rerum et elementorum atque rerum investigamus».

[4] Del natural desiderio di sapere e beatitudine dei Lincei per adempimento di esso. Discorso del principe Federico Cesi Linceo... (Napoli, 26 gennaio 1616),

[5] «Liber tibi sit pagina divina, ut hæc audias; liber tibi sit orbis terrarum, ut hoc videas. In istis codicibus non ea legunt nisi qui litteras noverunt; in toto mundo legat et idiota», Enarrationes in Psalmos XLV, /, in: Migne, PL XXXVI, 518.

[6] E. Torricelli, Lezioni accademiche, Milano 18232 pp. 191-192.

[7] Cfr. G. Simon, Kepler’s Astrology: The Direction of a Reform, in: A. and P. Beer (eds.), Kepler, Four Hundred Years. Proceedings of the Conferences held in honour of Johannes Kepler, Oxford 1975, pp. 447-448.

[8] Epitomes Astronomiæ Copernicanæ, in Opera Omnia ed. Ch. Frisch, Francofurti 1866, VI, pp. 120-121.

[9] «Ego vero sic censeo, cum Astronomi sacerdotes Dei altissimi ex parte libri naturæ simus: decere non ingenij laudem, sed Creatoris præcipue gloriam spectare», lettera a Herwath von Hohenburg, 26 marzo 1598, in: Jo. Kepleri Gesammelte Werke, ed. Beck, München 1945, XIII, p. 193.

[10] Sphera mundi cum tribus Commentis nuper editis, vid. Cicchi Esculani, Francisci Capuani de Manfredonia, Jacobi Fabri Stapulensis, Venetiis 1499.

[11] Liber quadripartiti Ptholemei, Venetiis 1493. Il tema è molto diffuso nel medioevo: cfr. Pietro d’Abano, Lucidator dubitalium astronomiae, ed. G. Federici Vescovini, p. 142; Raimondo di Marsiglia, Liber cursuum planetarum (cit. da M.-Th. D’Alverny, Abélard et l’astrologie, in: Pierre Abélard – Pierre le Vénérable, Paris 1975, pag. 626, n.52; cfr. Lucio Bellanti, Liber de astrologica veritate, Florentiæ 1498, I, 1, cc. aiii. La conoscenza dei moti del cielo fa partecipare l’uomo a ciò che è divino prima del tempo: V. Valens VI, 1 (Kroll 241, 13; 242, 29), che cita Nechepso; cfr. Giuliano di Laodicea (Catalogus Codicum Astrologorum Græcorum IV, 104, 4). Su questo tema cfr. le belle pagine di Franz Cumont (La théologie solaire du paganisme romain, Mémoires de l’Académie des Inscriptions et Belles Lettres n. 12, 1909) che, dall’afflato divino di Manilio e dai versi mistici di Tolemeo, giunge fino al sentimento d’emozione cosmica del Wilhelm Meister (I 10), dove la maestà e la costanza delle rivoluzioni celesti si contrappongono all’instabilità dell’animo umano.

[12] G. Pettinato, La scrittura celeste. La nascita dell’astrologia in Mesopotamia, Milano 1998, p. 127.

[13] G. Pettinato, Archeologia e astronomia in Mesopotamia, in: Archeologia e Astronomia: esperienze e prospettive future, Atti dei Convegni Lincei n. 121, Roma 1995, pagg- 123-124.

[14] A. W. Sjöberg, The Old Babylonian Eduba, in: S. J. Lieberman et alij (eds.), Sumerological Studies in Honor of T. Jacobsen on his seventieth birthday, Chicago 1976, pp. 159-179, sp. pp. 174-175.

[15] A. Deimel S.J., Pantheon Babylonicum. Nomina Deorum e textibus cuneiformibus excerpta et ordine alphabetico distributa, Romæ 1914, p. 226.

[16] G. R. Castellino, Two Shulgi Hymns (Studi Semitici n. 42), Roma 1972, pp. 11-13.

[17] W. W. Hallo, The Cultic Setting of Sumerian Poetry, in: A. Finet (ed.), Actes de la XVII Rencontre Assyriologique Internationale, Ham-sur-Heure 1970. pp. 117-134, sp. p. 125.

[18] W. Horowitz, Mesopotamian Cosmic Geography, Winona Lake, Indiana, 1998, pag. 167.

[19] C. J. Gadd,  Ideas of Divine Rule in the Ancient East, London 1948, pag. 57.

[20] D. Brown, Mesopotamian Planetary Astronomy-Astrology, Groningen 2000, pag. 112.

[21] D. Brown, op. cit., pag. 138.

[22] C. J. Gadd, op. cit. pag. 93.

[23] W. Horowitz, op. cit. pag. 226.

[24] Cfr. Plotini Enneades cum Marsilii Ficini interpretatione castigata, (edd. F. Creuzer, G. H. Moser), Paris 1855: «Sunt igitur tanquam litteræ in cælo quæ vel scribantur assidue vel jam conscriptæ perpetuo explicentur».

[25] Sul significato originario di stoicheion e i suoi sviluppi cfr. J. Lohmann, Mousike und Logos. Aufsätze zur griechischen Philosophie und Musiktheorie, Stuttgart 1970, pp. 3-6; 9-12.

[26] Philocalia XXIII, 20.

[27] de specialibus legibus I, 92. Filone si serve del verbo stêliteuein, la cui accezione prima è “incidere su una stele“.

[28] The Book of Instruction in the Elements of the Art of Astrology, ed. R. Wright, London 1934, pag. 317, § 515.

[29] Cfr. Shahrastânî, Livre des religions et des sectes, Leuven 1986, I, pagg. 557ss.

[30] Non si deve dimenticare un’idea ricorrente nel misticismo ebraico, ovvero il potere che, in accordo alla tradizione talmudica, risiede nelle lettere dell’alfabeto. Pico della Mirandola conosceva bene due libri che parlano del misticismo delle lettere, il Sefer ha-Bahir (Libro luminoso) e il SeferYezirah (Libro della creazione). In quest’ultimo è detto che Dio creò l’universo con tre libri (sefarim): sefer o sofer, la parola scritta, sefar, il numero, sipur, la parola pronunciata. Nella traduzione latina di Johannes Pistorius (in Artis cabalisticae ... tomus primus, Baileae 1587, pag. 869), i tre libri sono scriptis, numeratis, pronunciatis. Limitatamente al contesto cosmologico, i commentatori, quali Shabbetai Donnolo, riferiscono ai sefarim le ventidue lettere dell’alfabeto ebraico, e in particolare a sefer le tre lettere madri, ovvero i tre elementi, fuoco, aria, acqua; a sefar i sette pianeti, a sipur i dodici segni dello zodiaco. Pico, a cui era noto il commento di Rabbi Eliezer di Worms al Sefer Yezirah, sostanzialmente identico a quello di Donnolo, integrò il misticismo delle lettere nel suo sistema di interpretazione dell’universo come codice esplicativo delle leggi nascoste della natura. Affermerà pertanto nell’ultima delle sue conclusioni cabbalistiche: «Sicut vera astrologia docet nos legere in libro Dei, ita Cabala docet nos legere in libro legis», Conclusiones sive theses DCCCC, Romæ anno 1486 publicæ disputandæ, sed non admissæ, ed. B. Kierzkowski, Genève 1973. Sul Sefer Yezirah  e il commento di Donnolo cfr. D. Castelli, Il commento di Sabbatai Donnolo sul libro della Creazione, Firenze 1880; A. Sharf, The Universe of Shabbetai Donnolo, Warminster 1976; D. Sciunnach, Sefer Yetzira’, libro della formazione, secondo il manoscritto di Shabbatai Donnolo, con il commentario Sefer Chakhmonì (Libro sapiente) di Shabbatai Donnolo, Milano 2001.

[31] L. Massignon, La passion d’al-Hallâj (thèse de doctorat),  Paris 1922, pag. 589.

[32] Giambattista Vico, Principi di scienza nuova, Napoli 1744, pag. 154 (libro II, cap. VII : Della logica poetica).

[33] Fihrist al-‘Ulûm, (testo ar.: p. 21; trad. ingl. p. 18).

[34] Cf. On Historical Astrology. The Book of Religions and Dynasties (On the Great Conjunctions), ed. K. Yamamoto, Ch. Burnett, Leiden – Boston – Köln 2000, I, pag. 7.

[35] De interpretatione, ed. Busse, in : Commentaria in Aristotelem Græca, Berolini 1895, IV, 5, pag. 42. Cf. Stoicorum Veterum Fragmenta, ed. Arnim, II, pag. 147, n. 164.

[36] Cf. J. Harris, Hermes, or a Philosophical Inquiry concerning Universal Grammar, London2 1765, pag. 278 (reprint Hildesheim – New York 1976).

[37] P. Kraus, Jâbir ibn Hayyân. Contribution à l’histoire des idées scientifiques dans l’Islam, Paris II 1986, pag. 241.

[38] Sun, Moon and Stars. Muhammadan, in: J. Hastings (ed.), Encyclopædia of Religion and Ethics, New York 1921, pag. 91.

[39] al-Nairûzîyah fî ma’âni ‘l-hurûf al-hijâ’îyah, in: Tis‘ rasâ’il, Cairo 1908, cit. da S. H. Nasr, An Introduction to Islamic Cosmological Doctrines, London 1978, pagg. 209-210.

[40] H. Corbin, En Islam iranien. Aspects spirituels et philosophiques, Paris 1971, III pagg. 320ss.

[41] Sul rapporto tra lawh e qalam con la gerarchia degli intelletti, lo stesso al-Kirmânî dà corrispondenze diverse in diverse sue opere, cfr. P. E. Walker, Hamîd al Dîn al-Kirmânî. Ismaili Thought in the Age of al-Hâkim, London-New York 1999, pagg. 97; 152, n. 19.

[42] A. M. Heinen, Islamic Cosmology. A Study of as-Suyûtî’s al-Hay’a as-sanîya fî ‘l-hay’a as-sunnîya, with critical edition, translation and commentary, Beirut 1982, pag. 83.

[43] A. Jeffery, The Foreign Vocabulary of the Qur’ân, Baroda 1938, pagg. 253-254.

[44] Cfr. Cl. Huart, Qalam, in: Encyclopédie de l’Islam, Leiden-Paris 1978, IV, pag. 492.

[45] Cfr. al-Maqdisî, Le livre de la création et de l’histoire, publié et traduit par Cl. Huart, Paris, 1899, I, pag. 161. Maqdisî (ibid. pag. 164) riferisce altre interpretazioni riguardo al qalam e al lawh: il primo indicherebbe il mondo superiore, il secondo l’inferiore (e allora si comprende perché il lawh si estende da oriente a occidente per 180 gradi, pari alla longitudine del mondo conosciuto); ancora, il primo designerebbe l’anima, il secondo il corpo.

[46] M. S. Guyard, ‘Abd ar-Razzâq et son traité de la prédestination et du libre arbitre, Journal Asiatique, février-mars 1873, pp. 125-209.

[47] Cfr. T. Gregory, Anima mundi. La filosofia di Guglielmo di Conches e la scuola di Chartres, Firenze 1955, pag. 137.

[48] non communibus litteris, rerum charactere notisque conscriptis (II, 11).

[49] Si noti la simiglianza dello speculum e della tabula con il concetto teologico islamico del qadâ’ e del qadar. Questi due termini, presi congiuntamente, significano i decreti divini. In particolare, al-qadâ’ è il decreto eterno e qadar il decreto attuato nel tempo: il primo è un attributo dell’essenza, il secondo dell’azione.

[50] Celum velim videas multiformi imaginum varietate descriptum quod quasi librum, porrectis in planum paginis, eruditioribus oculis explicui, secretis futura litteris continentem.

[51] R. J. Lemay, Abu Ma‘shar and Latin Aristotelianism in the Twelfth Century, Beirut 1962 (cfr. spec. pagg. 262ss.).

[52] Tractatus Preclarissimus in Judiciis Astrorum de mutationibus aeris cæterisque accidentibus singulis annis evenientibus iuxta priscorum sapientumque sententias per Magistrum Ioannem Glogoviensem perquam utilissime ordinatus atque noviter bene revisus, Impressum Cracovie... 1514, cc. Aiiiv. Il richiamo è a Ps. 103,2: «Extendens cælum sicut pellem».

[53] op. cit. : «Cum nihil magni in hoc mundo evenit quin habeat aliquod testimonium in celo. Est enim celum velut quidam liber manu dei scriptus in quo tanquam litteras legibiles stellas celi posuit».

[54] Elucidarium astronomice concordie cum theologica et historica veritate, cap. 2, Venetiis 1490, cc. e4v.

[55] Speculum astronomiæ, cap. 12 (ed. a cura di S. Caroti, M. Pereira, S. Zamponi), Pisa 1977, pag. 37.

[56] «Cum extenderet cælum sicut pellem, formans librum universitatis, et dedignaretur opus facere incompletum, noluit litteris eius deesse, ex eis quæ secundum providentiam suam in libro æternitatis sunt scripta».

[57] Sulla natività del Cristo cfr. O. Faracovi, Gli oroscopi di Cristo, Venezia 1999.

[58] «Unde in libro universitatis, quod est cæli pellis, sicut prædictum est, potuit figurare, si voluit, quod sciebat», op.  cit. pag. 44.

[59] Amicus medicorum magistri Johannis Ganiveti, Lugduni 1496, I, 4: Il moto dei cieli è secondo il volere di Dio «et inter cetera creata speculatio magna et admiratio ipsius conditoris relucet in celis materialibus velut in quodam libro digito Dei scripto, teste David eximio prophetarum dicente: Celi enarrant gloriam Dei...».

[60] Iohannis Garcæi Astrologiæ methodus..., Basileæ 1576, cc. a6r: «Grati etiam Deo opifici sapientissimo esse debemus, qui cœlum tanta varietate siderum nobis pinxit et sculpsit, ut ex hac mirabili scriptura, et perfectissimo volumine, de maximis rebus erudiamur».

[61] Defensio bonorum astrologorum de astrologia iudiciaria adversus calumniatores, in: Speculum Astrologiæ, universam mathematicam scientiam in certas classes digestam, complectens, Lugduni 1581, I, pag. 4: «Astrologia est liber Dei apertus, in quo pauci legere norunt».

[62] Cl. Ptolemæi Pelusiensis Libri Quatuor, De Astrorum Iudiciis cum expositione Hieronymi Cardani, in: Opera Omnia, Lugduni 1663, V, pag. 355.